Tre semplici sonetti di fra Bartolomeo da Salutio francescano osservante

Bartolomeo Cambi da Salutio fu frate Minore Osservante, scrittore ascetico e poeta deceduto in concetto di santità.
Figlio di contadini, nacque nel 1558 in Casentino e fin dall’infanzia lavorò nei campi, avvertendo però presto una forte vocazione religiosa. Accettato nel 1575 nel convento de La Verna, pur essendo molto giovane, assecondò la sua passione per le lettere e interiorizzò la tradizione poetica, mistica e profetica dei francescani. Con il tempo assunse posizioni di responsabilità nei conventi e fu richiesto per la predicazione. Nel 1593, tuttavia, dopo la scoperta nella sua cella di un “leuto” ( liuto) e di cose minime ma frivole, lasciò l’Ordine per la vergogna.
Ritornò in convento pochi mesi dopo la partenza e, passato un periodo di segregazione a Siena, continuò ad assolvere al compito a lui più adatto della predicazione. Desiderando vivere in modo ascetico, nel 1598 si stabilì prima nel romitorio de La Verna e poi a Fiesole in uno dei conventi “riformati” dell'osservanza francescana. Eletto custode di quelli della Toscana, nel 1601 lasciò la carica per la resistenza fatta ai suoi rigidi metodi di governo.
Riprese pertanto a viaggiare e a predicare con impegno nelle città d’Italia, preferendo parlare in luoghi all’aperto, in mezzo alla folla, portandosi dietro una grossa croce di legno. Continui furono i suoi forti appelli alla penitenza in un epoca di estrema povertà e malcostume, senza timore dei ricchi e potenti o del clero; grande fu il successo tra gli uditori e la povera gente.
Per contro fu oggetto di divieti e opposizioni proprio per la veemenza della sua parola e i disordini incontrollati che potevano scoppiare tra il popolo. Inviso al cardinale dei Medici e a Clemente VIII, venne relegato nel 1602 in San Francesco a Ripa a Roma. Ritornò a predicare nel 1605, ma a causa dell’animo irruento e delle sue parole poco misurate subì un’altra segregazione al convento di Ripa. Trasferito su sua richiesta al convento di San Pietro in Montorio, qui morì il 15 novembre 1617.
Di lui restano gli scritti e le belle liriche, ammirate già ai suoi tempi dai confratelli, espressioni di un animo sensibile e mistico che nel comporre trovava consolazione alle proprie pene.

Nel Conforto del peccatore, edito a Venezia nel 1668, diceva di sé: “Fra Bartolomeo Poverello, e peccatore miserando, manda salute, e pace a tutti i peccatori, e peccatrici, fratelli e sorelle sue nel Crocefisso Giesù”.
Ed esortava:
“... ritornate ciascuno, fratelli e sorelle, dalla sua vita cattiva e dalle pessime cogitationi e pensieri vostri. Convertitevi, convertitevi tutti dalla vostre vie pessime ... pregate per me”.
Concludeva:
“Giesù s’accompagni sempre, e benedica tutti, e vi dia gratia di mettere in esecutione quello, che benignamente diede gratia a me di poter insegnarvi. E tutto sia a laude, gloria et honore della Santissima Trinità, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, e di tutta la Celeste Corte. Amen”.

I sonetti sono di squisita fattura, come uno “dei pochi che non petrarcheggiano in quel furor di petrarchismo, sulla fine del 500” (Giovanni Casati):

Altro, che affanni la mia vita amara
Non è, che dove queste luci in giro
Vado menando, ogn’hor piango, e sospiro,
L’un giorno, e l’altro il pianto mi prepara.

La Terra, e il Cielo, et ogni cosa avara
M’è d’allegrezza, et è lungo martiro
Questa mia vita, quando so mi ritiro
Dentro me stesso, a l’aria fosca, o chiara.

Trovo il mio cor, che in mar d’affani ondeggia,
Combattuto da venti, e da procelle,
Quasi sdruscito legno, e rotto, e perso.

Sfogo tal’hor cantando in rozzo verso
La doglia, che mi opprime, e alle stelle,
Tal’hor mi volgo, e al Sol quando fiammeggia.

Altri sonetti sono dedicati dall’autore a Maria, supplicando la di Lei intercessione per mitigare la sua travagliata vita. Il seguente è esempio sia della pena interiore che della ricerca del suo superamento nel perfetto pensiero francescano:

Madre benigna, dolce, e gratiosa
A te le colpe mie dichiaro, e svelo;
Acciò raccogli sotto il bianco velo
Del capo tuo la vita mia penosa.

Tu sei Madre di Dio, Figliuola, e Sposa,
E tu Regina sei di tutto il Cielo,
A te de’ miei nemici hor mi querelo:
Sebben la vita mia non t’è nascosa.

Madre non mi lasciar nel mare ondoso
Di tanti affanni: ond’io respiro a pena;
Ma trammi homai d’affanni, e di periglio.

Tu vedi, ch’io non tengo asciutto il ciglio,
Né del pianto si stagna in me la vena,
E non trovo nel mondo alcun riposo.

Un altro sonetto ancora ricorda la sua santa ed evangelica insistenza nella supplica a Maria:

Madre dolce, pietosa, e Madre Santa,
Quando avverrà che con tua santa mano
Mi porga aiuto tu: Poiché l’humano
Mi niega il mondo in povertà cotanta?

O quanto è la mia speme o Madre, o quanta,
Sperar l’aiuto tuo dolce, e sovrano,
E la fiducia mia, né credo invano.
E vincerò, chi vincer me si vanta.

Spruzzami co’l tuo latte, o Madre il core,
acciò vigor riprenda, e si conforti,
E baldanzoso alla vittoria aspiri.
Se co’ i bei lumi tuoi mi guardi, e miri,
E se come fin qui mi reggi, e porti
Io fugarò la tema, et il timore.

Raccolti da Paola Ircani Menichini,
10 febbraio 2023. Tutti i diritti riservati.




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